Fulvio Colombo
Alle origini della vendita del vino al minuto a Trieste.
Appunti per una storia delle "osmize" [1].
Ci sono credenze nel mondo del vino così consolidate da sembrare ovvie e quindi non meritevoli di approfondimento. Il problema è che nel campo della ricerca storica, che per sviluppare i propri ragionamenti ha bisogno di documenti (non necessariamente cartacei), l'ovvio non esiste e l'indagine, per quanto difficile possa essere, deve sempre tendere alla comprensione dei fenomeni e nello specifico alla loro evoluzione, datazione e periodizzazione.
Parlando di vendita di vino al minuto, al suo livello più elementare, cioè di "frasche" e di "osmize" il problema si fa serio, perché anche ad una prima analisi superficiale quel che si sa sull'argomento, dal punto di vista storico, appare del tutto inconsistente.Il termine, non presente nei repertori storici sloveni con questo significato, è associato per la prima volta alla rivendita di vino in area triestina - particolare questo di non poco conto - appena nel 1884. Tutto quello che sappiamo sulla storia delle frasche e delle osmize in ambito triestino proviene da un'unica fonte (come nel caso del ben più illustre Pùcino), perché l'autore dei primi ragionamenti, ripresi poi all'infinito e codificati alla stregua di versetti biblici, è Cesare Fonda.
Il miraggio della continuità
Inizialmente in modo scherzoso nella sua opera Ocio alla jota. Storia de Trieste e de la sua cusina, scritta
in dialetto triestino e uscita a puntate tra il 1992 e il 1996 [2] e poi nel volumetto più
tematico Andar per frasche [3], il Fonda traccia la storia dell'osmiza partendo da Carlo
Magno; un'operazione piuttosto audace data la distanza temporale, ma soprattutto impossibile da verificare vista la
mancanza di riferimenti bibliografici.
Eppure l'autore è preciso a riguardo e non ha dubbi nell'affermare che si tratta di una «ordinanza con cui il monarca
concede a tutti i viticoltori dell'Impero il diritto di vendere direttamente il loro vino, segnalando tale attività con
l'esposizione di una frasca» [4]; una notizia che nell'opera giocosa in dialetto nel capitolo «Carlo Magno
verzi osmiza» poteva anche starci, ma che ormai a furia di essere ripetuta all'infinito è ritenuta autentica in ogni
articolo o scritto che si occupi della materia.
Anche il successivo documento triestino del 1430 (che in realtà è del 1428), citato a testimonianza della
presenza di osmize in ambito locale [5], va letto ed interpretato in modo diverso. Si tratta infatti di un atto legato al
contenzioso in materia di dazi tra il Comune di Trieste e i sudditi della signoria di Duino a Prosecco, ossia
nell'abitato posto sul confine tra le due giurisdizioni, nella parte triestina del quale abitavano persone legate da
vincoli di sudditanza nei confronti dei duinati, ma che avevano proprietà o lavoravano vigne del loro signore in
territorio triestino.
Il motivo del contendere riguardava quindi la riscossione del dazio sul vino venduto al minuto,
cui erano tenuti tutti gli abitanti del distretto triestino e che a Prosecco si rifiutavano di pagare per questa loro
particolare e singolare situazione [6].
Eliminati questi due importanti riferimenti che cosa resta dunque? È possibile scrivere qualcosa di sensato sull'argomento? Per dare una risposta bisogna ripartire dal simbolo stesso della vendita di vino al minuto, perché la pratica di appendere quel ramo fronzuto a mo' di vessillo è molto più antica di quanto non si creda e nasconde significati che si perdono nella notte dei tempi.
In origine c'era la "frasca"
Il ramo d'edera, il signum vini venalis per eccellenza è noto come simbolo della vendita del vino al minuto da
tempo immemorabile. Vino ed edera, connubio così imprescindibile da diventare proverbiale: Vino vendibili suspensa
hedera nihil opus, la massima più nota, perché compresa nella raccolta degli Adagia di Erasmo da
Rotterdam dei primi del Cinquecento [7], a significare che il vino buono non ha bisogno di insegna e in senso
più lato che la qualità delle cose non è determinata dalla pubblicità che se ne fa.
Il proverbio di cui esistono parecchie varianti, che Erasmo non attribuisce a nessun autore e che è stato tradotto
in seguito in tutte le lingue, potrebbe essere anche d'età classica per i precisi richiami che legano dalla
metà del I secolo a.C. il vino all'edera e alla divinità a cui erano più cari entrambi: Dioniso
[8].
Nelle più antiche raffigurazioni del dio, che per i romani sarà Bacco, questi viene sempre rappresentato
cinto da una corona d'edera e con un bastone che nella parte sommitale presenta un emblema a forma di pigna, composto
anche questo da rami d'edera intrecciati. Nella raffigurazione riprodotta sul fondo di una coppa (kylix) del 480 a.C.
(Museo del Louvre), invece, la divinità, che si fa servire il vino da un giovane, porta in capo la solita una corona
d'edera, ma nella mano sinistra, per emblema, un ramo della stessa pianta. Questo simbolo, la nostra "frasca", diventerà nel corso del
tempo la vera insegna della vendita di vino con funzioni protettive nei confronti dei seguaci, che alla sua ombra
sarebbero stati al sicuro dagli effetti secondari delle libagioni [9].
Furono poi in seguito i romani ad aggiungere agli attributi della divinità i pampini e i tralci di vite che ci sono
familiari, senza trascurare mai però del tutto l'edera.
Non è certo possibile in questa sede approfondire tali significati, perché non sono certo la persona
più adatta a farlo, quel che mi premeva però sottolineare è che quel semplice insieme di ramaglie, ritenuto
spesso la versione povera di una vera e propria insegna, è invece un riferimento prezioso a tradizioni così
antiche da destare meraviglia.
Stabilito questo primo punto di contatto, converrà, come dichiarato nel titolo, restringere il campo d'indagine
alla sola area triestina, perché altrimenti si rischia di perdersi in un mare di situazioni simili dato che
la pratica era diffusa un po' dovunque in Europa, nelle sue diverse coniugazioni.
Comune di Trieste e Signoria di Duino
Una precisazione a questo punto è indispensabile. Parlando oggi di "osmize" l'area geografica interessata è molto più ampia di quella "storica" in cui si è sviluppato il fenomeno e considerare quest'ultima, ossia il territorio provinciale triestino, come qualcosa di unitario sarebbe un grave errore dal punto di vista storico.
Nel Trecento, punto di partenza dell'analisi, l'area era divisa tra la Signoria di Duino (6) e i territori comunali
di Trieste (1) e di Muggia (4).
Due mondi diversi dal punto di vista economico e
sociale: da un lato il territorio duinate, tutto feudale, con rapporti di dipendenza personale di tipo semi-servile e con
la terra ancora organizzata a mansi, cioè a particelle agricole gestite da un singolo nucleo familiare e strutturate
in modo da garantire il suo sostenta- mento, dall'altro i distretti comunali composti in buona parte da proprietà
private [10].
Come si può ben capire ogni ragionamento non può che non partire da quest'ultime
realtà poiché stiamo parlando di iniziative private impensabili in ambito feudale con un'economia di pura
sussistenza.
Trieste nel Trecento: taverne per tutti
La facilità con cui era possibile aprire a Trieste nel Trecento un esercizio di vendita di vino al minuto, perché è di questo che stiamo parlando, rendeva forse inutile la predisposizione di norme particolari destinate allo smercio diretto da parte dei produttori. Una categoria che all'epoca, per quanto possa sembrare strano, comprendeva la quasi totalità della popolazione, perché sia in città che nei villaggi del distretto triestino era veramente raro trovare qualcuno che non possedesse almeno una vigna [11].
A questa abbondanza di vino, di cui è bene ricordare si faceva commercio perché era un prodotto di qualità, era congiunto un grande numero di rivendite
o "taberne" sia in città che nei villaggi del territorio a dimostrazione del loro carattere più "sociale" che
economico.
Nel 1358 furono censite a Trieste, nella sola città che all'epoca poteva avere circa 7-8.000 abitanti,
67 taverne in settembre e ben 74 in ottobre, con indicazioni precise riguardo al loro carattere temporaneo dettato
evidentemente dalla variabilità dell'eccedenza di vino [12].
Non era difficile aprire tali attività. Chi voleva farlo doveva presentarsi davanti al podestà, al suo vicario o al "milite" del Comune, dichiarando l'intenzione di voler vendere vino alle unità di misura prescritte e comunicare il prezzo di vendita; informare i funzionari comunali per le opportune verifiche, far registrare la taverna nell'apposito elenco e far sì che della cosa fosse dato annuncio dal pubblico banditore sulle scale del palazzo comunale [13]. Tutto questo insieme di pratiche, all'apparenza complicate, poteva essere espletato a voce senza la redazione di alcun atto scritto e quindi in tempi brevi.
Nessuno sfuggiva al dazio sui vini
La legislazione cittadina in merito era severissima e non ammetteva eccezioni, perché gli introiti di quell'imposta costituivano la fonte maggiore di entrate del Comune triestino. Impossibile quindi immaginare una vendita diretta che potesse sfuggire a questo balzello. Il dazio era affidato in appalto sia per la città che per il territorio, a garanzia di un'esazione più capillare di quella effettuata da funzionari comunali [14]. A questa logica va riferito il documento già citato del 1428 che riguardava l'annosa controversia dei dazi a Prosecco.
Allo stato attuale non è possibile inoltre capire quale fosse la proporzione nei pagamenti tra i venditori professionisti, gli osti, e i semplici proprietari di vigne, perché l'assenza di distinzioni nella legislazione statutaria triestina del Trecento non consente ulteriori approfondimenti.
Un primo indizio
Alla fine del Trecento, o ai primi del Quattrocento, la data purtroppo non è certa, succede qualcosa a cui non
è possibile ancora dare una spiegazione completa. Nel regolamento relativo al funzionamento delle "taberne" fu
introdotta una modifica che impediva all'oste, sotto pena pecuniaria, di vendere vino prodotto dalle proprie vigne
[15].
Il divieto, inserito anche nelle successive codificazioni statutarie e valido quindi sino a
Settecento inoltrato [16], vietava dunque per quasi quattro secoli ai produttori di aprire una taverna
per vendere direttamente il proprio vino, cosa che evidentemente in precedenza era permessa.
Considerato che il dazio per la vendita a spina si pagava comunque, sia che il vino fosse proprio o degli altri, mi
risulta difficile pensare ad un divieto di vendita in assoluto, ma ad una norma tesa a definire in modo più
professionale la figura dell'oste e del suo esercizio: la taverna. In mancanza di divieti espliciti alla vendita del
prodotto delle proprie vigne, possiamo pensare quindi ad una continuità delle forme di spaccio tradizionali con
regole dettate dalle consuetudini e il rispetto della sola cosa che per le casse comunali era veramente importante:
la percezione dei dazi.
Se la cosa verrà verificata sui documenti, cosa che in questo periodo d'emergenza non mi è stata possibile,
potremmo dire che dalla fine del Trecento la rivendita di vino al minuto di propria produzione prende forma, perché
la "taverna" comincia ad assumere una fisionomia propria e più moderna.
Maria Teresa d'Austria e l'età delle Riforme
È dalla seconda metà del Settecento però che le novità si fanno di rilievo. Con l'ascesa al trono di Maria Teresa, la sovrana dà avvio ad una serie di riforme che coinvolgeranno tutti i rami della pubblica amministrazione ed anche il mondo del vino, con provvedimenti tesi a disciplinare il suo commercio all'interno dei domini di Casa d'Austria.
L'uscita di questi decreti provocò a Trieste un vero e proprio sconquasso perché la produzione vitivinicola, regolamentata da secoli con norme comunali, rappresentava ancora la maggior fonte di reddito della popolazione e il principale introito dell'amministrazione cittadina.
Il vero problema era rappresentato in realtà dall'introduzione di vini esteri, soprattutto quelli veneti, prodotti in Friuli e in Istria a costi inferiori, ma necessari visto l'aumento costante della popolazione a seguito della proclamazione del Portofranco e la limitata produttività del territorio triestino.
I provvedimenti di Maria Teresa, che andavano a modificare pratiche ormai consolidate da secoli, prevedevano per Trieste, a partire dal 1749, la cosiddetta "privativa del vino", ossia il privilegio di poter vendere prima i prodotti del territorio e poi, esaurite le scorte, i vini austriaci e quindi per ultimi quelli veneti [17].
"Frasca" obbligatoria per tutti
Fra i molti atti a disposizione, il più importante ai fini del nostro ragionamento è sicuramente l'editto
del 1757 centrato sul contenimento dei "contrabbandi", ossia sull'intro- duzione di vini forestieri. All'interno dell'atto
un paragrafo è particolar- mente significativo perché prevedeva l'esposizione obbligatoria della "frasca" per ogni
tipologia di esercizio:
«tutti quelli, che destineranno di vendere il loro Vino alla minuta, siano questi Tavernari
assonti dal Pubblico, o quelli, che vogliono smaltire il Prodotto delle proprie Possessioni esistenti in questo Teritorio
(poiché la presente Legge s'estende per tutto anche alli secondi) debbano appendere alle loro Case la solita frasca,
altrimente a quel tale, che si piglierà Licenza di vender, o far vendere Vino alla minuta senza il detto segno
sarà confiscato tutto il Vino, che si troverà nella sua Cantina.» [18]
Preso atto dell'esistenza nel 1757 di rivendite diverse da quelle "pubbliche" perché aperte per smaltire il
"prodotto delle proprie possessioni", veniamo a sapere che: «La qual Cautela non ha altro per suo oggetto, se non,
che gli Esattori del Dazio abbiano notizia, dove e in qualli Case si venda Vino, e possano insister con ogni Sollecitudine
al pagamento del Dazio» [19].
Nel 1757 il dazio non si pagava quindi a chiamata, all'atto della concessione di
vendita, ma veniva riscosso d'ufficio casa per casa o meglio frasca per frasca. Insegna che doveva essere già in uso
da tempo, poiché viene definita "solita", ad indicare inequivocabilmente una funzione nota a tutti.
Giuseppe II padre dell'osmiza?
Con queste premesse possiamo ancora attribuire a Giuseppe II il merito di aver dato vita alla pratica? Direi proprio di no, anche perché a leggere il famoso decreto del 17 agosto 1784 [20], considerato la vera pietra miliare nella storia dell'osmiza, ci accorgiamo che già in premessa si precisa che la sua emissione è stata motivata dalla mancata osservanza di principi "naturali", che dovevano essere quindi già in essere e che andranno sicuramente riferiti alla madre, cioè a Maria Teresa.
L'atto diretto alle Signorie fondiarie (Grundherrschaften), ricordando le ordinanze precedenti, vietava espressamente ogni ingerenza nello stabilire i prezzi di acquisto e di vendita del cibo e delle bevande, ribadendo il principio che i sudditi fossero liberi di acquistare e vendere al prezzo da loro voluto.
Il decreto che a questo punto era rivolto più alla Signoria di Duino che a Trieste (vedi precisazione precedente) non produsse alcun effetto in Carso per quanto risulta dai documenti dell'archivio duinate, perché si trattava di una pura dichiarazione di principio, ampiamente disattesa a livello locale.
L'ultima frase, quella più nota, ribadendo la libertà di vendere i cibi, il vino e il mosto di frutta da sé prodotti in ogni periodo dell'anno, nel modo, nel momento e al prezzo da sé fissato, ne dichiarava in modo esplicito l'inapplicabilità in un mondo in cui ogni attività era disciplinata da leggi e ordinanze a livello territoriale.
A far fede alla ricostruzione storica di Bartel F. Sinhuber relativa all'istituzione parallela viennese l'Heurigen (nella quale la notizia è però citata priva di fonte), il provvedimento fu determinato da una supplica inviata a Corte dagli osti del territorio di Salcano/Solkan nella contea di Gorizia, costretti dal loro giurisdicente, il conte Delmetri, a vendere in determinati periodi dell'anno solo il vino delle sue proprietà [21].
Una testimonianza dei primi Ottocento
Preziose a questo punto sono le notizie contenute nell'opera di Ignazio Kollmann, Triest und seine Umgebungen del 1807, che qui presento nella traduzione del 1978:
«Patrizi e privati che posseggono vigneti nel territorio di Trieste, quando loro aggrada appendono davanti alle loro case delle insegne d'osteria e vendono al dettaglio il vino di propria produzione (il prediletto vino della città) a dei prezzi fissati a loro discrezione. Non appena da qualche parte viene aperta una cantina di una certa rinomanza, dalla quale anche i beoni più incalliti escono barcollando per ritornare a casa, allora lì affluiscono a frotte cittadini, manovali, commessi, macellai e marinai, i quali si sistemano sugli scalini, nel cortile, sulla via e bestemmiando affermano che si tratta di un gotto di vino davvero eccellente.» [22].
La pratica era quindi ai primi dell'Ottocento in piena attività con modalità che ci sono familiari, praticata da possidenti facoltosi e semplici contadini, pare in qualunque periodo dell'anno. A dire del Kollmann il vino che veniva offerto in quelle occasioni era il cosiddetto "vino della città", nel testo originale Stadtwein, ossia il vino prodotto con vitigni a bacca nera nei sobborghi cittadini [23].
Regolamenti di polizia e regolamenti industriali
Appare più che difficile pensare però che l'esercizio non fosse soggetto a nessuna regola, perché
come ribadito nel decreto della Cancelleria di Corte del 28 novembre 1845 [24], l'apertura
dell'attività era subordinata, luogo per luogo, alle regole di finanza e di polizia (anche sanitaria) che potevano
autorizzarne o no l'esistenza.
Nell'atto dove si richiama, in linea di principio, anche il decreto del 1784 si evidenziano le problematiche prodotte
dall'emissione del provvedimento di Giuseppe II nelle diverse realtà locali, alcune dotate di regolamenti propri,
ad evidenziare la difficoltà applicativa di norme così generali e vaghe.
Nel 1859 con l'emissione del primo "regolamento industriale", valido per tutta la monarchia, si precisava come ne
fossero escluse «la produzione agricola e boschiva e le loro sussidiarie industrie, in quanto che queste hanno per
oggetto principale la preparazione dei propri prodotti; come pure la vendita al minuto accordata in alcune parti
dell'Impero ai possessori di vigneti e di orti riguardo ai loro prodotti» [25].
La precisazione "in alcune parti dell'Impero" era naturalmente necessaria data la vastità del territorio compreso,
ma al tempo stesso stava ad indicare il suo carattere di condizione particolare e quindi non generale.
Due pubblicità di spaccio di vino in "campagna": Il Diavoletto, 14 aprile 1866 e 10 novembre 1867.
1882. L'osmiza prende forma
Il primo vero regolamento attuativo che si conosca rimane quindi, per l'ambito geografico che ci interessa, la
"Notificazione luogo- tenenziale" del 2 marzo 1882, valida per tutto il Litorale austro-illirico, ossia per le «Contee
principesche di Gorizia e Gradisca, il Margraviato dell'Istria e la città immediata di Trieste col suo
territorio».
L'ordinanza «concernente la vendita al minuto di vino di propria produzione», redatta in tedesco, italiano e
sloveno, precisava al primo punto che «i proprietari di vigne nella loro qualità di producenti hanno in base ad
antiche istituzioni e specialmente ai decreti della can- celleria aulica 17 agosto 1784 e 28 Novembre 1845 N. 35095 il
diritto di vendere il loro prodotto al minuto» senza tener conto delle restrizioni imposte dal regolamento
industriale, in base all'eccezione di cui si è fatto cenno [26].
Con sorpresa poi si dichiarava che «Questo diritto non è limitato al domicilio del producente ned al luogo di
produzione, e può essere esercitato anche fuori di questi luoghi» quindi in tutto il Litorale, «ed in
qualunque stagione», e che «non è proibito al producente di esporre un'insegna di tale vendita».
Il regolamento prevedeva poi la necessità di richiedere una licenza al rispettivo ufficio comunale, anche a voce,
dichiarando il nome dell'avente diritto, il locale di esercizio, la quantità di vino da mettere in vendita e la
conferma che si trattasse di prodotti propri. Era previsto inoltre, che prima dello smercio fosse necessario ritirare
anche la «licenza di finanza». Al quinto punto infine una precisazione molto importante perché «Colla
licenza di vendita al minuto del vino di propria produzione non va congiunto il diritto di somministrazione di cibi e di
dar alloggio a forestieri».
In questa "proto-osmiza", quindi, solo vendita di vino al minuto; le uova, il formaggio e
i salumi devono ancora spettare.
Proprio il fortunato rinveni- mento di una di queste concessioni, con relativo riferimento normativo, ha dato avvio alle
presenti indagini, rovesciando certezze e sollevando molti dubbi riguardo a quanto si sapeva sulla storia dell'osmiza.
Nell'atto del 1905, intestato a Giuseppe Zerquenich proprietario di vigne in Santa Maria Maddalena inferiore N. 26, che ho avuto a
disposizione grazie alla cortesia di Maurizio Radacich, che qui ringrazio, si cita il regolamento del 1882 e la necessità di
rivolgersi, prima di iniziare la vendita, all'imperial regia Autorità di Finanza e a quella di Polizia.
È grazie a questo documento che ho inziato l'indagine a ritroso che ha portato ai presenti risultati.
Nell'ordinanza, che come sarà utile ripetere aveva validità per tutto il Litorale austro-illirico, ossia dall'alta valle
dell'Isonzo all'isola di Lussino, non c'è traccia del
termine "osmica/osmiza", a conferma dell'ori- gine locale e triestina della parola (come vedremo a breve), né alcun riferimento
cronologico alla durata dell'esercizio e quindi ai famosi "otto giorni".
"Osmica" le prime citazioni univoche
È piuttosto significativo il fatto che le prime citazioni conosciute del termine
«osmica» associate al particolare tipo di esercizio siano datate 1884, ovvero immediatamente
seguenti alla notificazione predetta e che la loro collocazione geografica sia piuttosto precisa: i
sobborghi della città di Trieste.
Tutte le citazioni più antiche sono contenute nelle pagine del giornale triestino in lingua slovena
"Edinost" che iniziò le pubblicazioni nel 1876.
Con le dovute cautele, perché le ricerche si
sono basate sull'edizione digitale del giornale, il termine compare per la prima volta all'interno di
un interessante articolo dedicato a Piščanci [27].
Dopo aver scherzato un po' con l'etimologia del toponimo, l'autore descrive le condizioni economiche
del piccolo borgo, in cui tutto sembra girare attorno alla vite e al vino, e le dimensioni modeste
degli appezzamenti a disposizione dei singoli.
Questo particolare aveva indotto, in quell'anno, qualcuno a consorziarsi e a consegnare il vino ad
un'unica persona per aprire un'«oštarija»; a differenza di quanto accaduto negli anni
precedenti quando quasi ogni contadino aveva aperto una propria «>osmica<».
Quest'ultimo termine è inserito tra parentesi angolari a testimonianza del suo significato particolare e non comune nello sloveno letterario. Si tratta quindi di un termine usato localmente, forse più antico del 1884 per quella precisazione relativa al passato.
La presenza di altre quattro citazioni in due articoli dello stesso anno e l'assenza nelle pagine
del giornale degli anni precedenti, a questo punto non può certo essere considerata casuale.
Nel primo articolo, sulle condizioni del territorio triestino, si pone l'accento sul fatto che i
contadini aprono le «osmice» per vendere il vino nuovo ai propri vicini e ai cittadini il
più presto possibile [28]; mentre nel secondo, dopo la constatazione che nel
circondario "superiore" e "inferiore", ad intendere probabilmente col primo termine l'Altopiano, i proprietari
avevano già da tempo aperto le loro «osmice» per vendere il vino (nel primo caso ai
locali, nel secondo caso agli abitanti di città) ci si lamenta delle alte tasse imposte dal
Comune e del vino pagato sottoprezzo dagli osti [29].
Nel dicembre del 1885, sullo stesso giornale, compare la prima pubblicità, relativa all'apertura da parte di Mih. Vodopivec di un "osmica" nei pressi della «Rumena hiša», conosciuta in italiano come "Casa Gialla", sopra Barcola [30] e nel 1891, infine, la prima spiegazione esplicita del significato del termine: le "osmice", ovvero gli spacci di otto giorni [31].
Anche in questo caso la parola è posta tra virgolette, ad indicare il suo significato particolare, ma la mancata conferma del concetto nella regolamentazione sulla materia e le pubblicità che ne annunciavano l'apertura per ben più di otto giorni, sullo stesso giornale, contribuiscono a questo punto ad alimentare dubbi circa l'origine del nome più che definire certezze.
Osmica e Osmizza/Osmiza
Il recepimento del termine in italiano non fu immediato perché esisteva il termine "spaccio"
e il suo diminutivo in dialetto "spaceto", a conferma forse dell'origine recente della parola in sloveno
e della mancata associazione del numero otto al funzionamento della rivendita.
Dopo una sporadica apparizione del termine nel 1914 nella forma «osmizza»
riferito ad una rivendita a Muggia [32], la parola fa il suo ingresso ufficiale nel 1923 in un corposo
articolo del quotidiano "Il Piccolo" dal titolo «Bacco nella vecchia Trieste. Vendemmie, vino nuovo,
osterie rustiche e "osmizze"».
Il contributo, che non è firmato ma che è attribuibile con discreta certezza (in base allo stile di scrittura e ai termini
utilizzati) a Riccardo Gurresch, grande "cultore della materia" e autore di altri articoli dello stesso argomento sullo medesimo giornale con lo
pseudonimo di "Ricciardetto", riassume in modo nostalgico situazioni di fine Ottocento - primi Novecento, vissute in prima persona e
ormai a detta dell'autore definitivamente perdute [33].
Nel testo, che è stato riprodotto per intero in appendice perché costituisce
un bel documento, si rileva come la stragrande maggioranza degli esercizi fosse situata negli immediati
sobborghi della città e addirittura in centro, a Montuzza (dietro la chiesa dei Frati) e a San
Giacomo; a Servola quasi ogni casa ostentava il suo bel frasco.
Nel 2019, infine, "osmizza" diventa ufficialmente una parola della lingua italiana perché è inserita come voce nel dizionario Zingarelli. Nell'edizione 2021 al lemma (cui è associato giustamente il sinonimo "osmiza") è dato il seguente significato: «osteria rustica segnalata da una frasca, presente spec. nell'altopiano carsico tra Italia e Slovenia, aperta stagionalmente, che offre prodotti locali quali vino, uova sode, affettati, formaggio, ecc.» - «dallo sloveno osmica, da osem 'otto', perché un tempo l'apertura consentita era di soli otto giorni all'anno».
In conclusione
Anche se non è stato possibile stabilire con certezza la genesi del termine sloveno osmica, credo si possano però definire, sulla base della documentazione conosciuta, due punti fermi: il vocabolo è nato nei sobborghi di Trieste nella seconda metà dell'Ottocento con prima citazione a Pis'cianzi/Piščanci, ed è legato al numerale otto anche se questo limite cronologico non è presente in nessuna legge o regolamento antico conosciuto a designare la durata dell'esercizio.
L'unica spiegazione sensata, in questa prima fase dell'indagine, lo associa ad una consuetudine locale legata alla vendita di piccole quantità di vino "nuovo" (effettuate quindi tutte nello stesso periodo) da parte di molti produttori. L'esigenza di stabilire in maniera pacifica e solidale l'apertura degli esercizi, può essere stata determinata a livello di comune censuario per consentire a tutti lo smercio del prodotto senza eccessive sovrapposizioni. Il limite di "otto giorni", comprensivo quindi di due aperture domenicali, ossia delle due giornate in cui si concentrava l'afflusso dei clienti cittadini e quindi il momento di maggior reddito, sarà stato ritenuto sufficiente a fare tutti contenti.
Le pubblicità in sloveno e in italiano sui giornali locali di fine Ottocento delle singole rivendite, le cui aperture si prolungavano per ben più di otto giorni, confermano però come ci sia ancora molto da studiare e investigare prima di giungere ad un risultato concreto.
La rapidità con cui si diffuse il termine nei sobborghi triestini, i più interessati dal fenomeno vista la loro vicinanza dal centro cittadino ne decretò il successo e la parola, perso ormai il significato originario, andò a colmare un vuoto linguistico, perché quell'attività non era in realtà né un'osteria, né uno spaccio in senso proprio, ma una particolare rivendita temporanea.
Ringraziando Stanko Flego e Davide Štokovac per l'aiuto nella lettura dei testi in sloveno, non posso che formulare l'augurio che ulteriori ricerche, spero condotte anche da altri, possano colmare i vuoti interpretativi e arricchire la storia di quella che sta diventando ormai una vera istituzione di interesse regionale e transfrontaliero, con valenze economiche non trascurabili.
Trieste, 19 dicembre 2020
BACCO NELLA VECCHIA TRIESTE
Vendemmie, vino nuovo, osterie rustiche e "osmizze"
[...] Ma sapete dove si gustava il miglior vino subito dopo la vendemmia? Non in città, nemmeno nelle
osterie rustiche aperte tutto l'anno. Il gocciolo più prelibato si beveva nelle casupole dei
«mandrieri», che potevano vendere il prodotto della propria vigna, senza licenza speciale e senza
pagar tasse.
Specialità della vecchia Trieste: tutti gli anni, nell'ottobre d'oro, quasi ogni seconda casa di campagna appendeva sopra l'uscio la classica frasca, che scompariva dopo qualche settimana. Queste bettole improvvisate, questi spacci effimeri - battezzati dai contadini con l'esotica voce di «osmizza», cioè di otto giorni - sorgevano un po' da per tutto, da Barcola a Servola, da Rozzol a Longera.
Ricordiamo le «campagne» più rinomate: «Cronnest» dietro i cimiteri, «Collioud» nella località «Campanelle», «Angeli» e «Volpi» a Rozzol, «Bauzon» a Santa Maria Maddalena, «Rossetti» dove oggi s'alzano le caserme, «Mondolfo», sotto platani secolari, dove poi sorgerà la fabbrica di birra. («O quae mutatio rerum!). A Servola poi quasi ogni casa ostentava la sua brava frasca. Qualche «osmizza» si trovava nel cuore della città: sul colle di Montuzza dietro la chiesa dei Frati, e a San Giacomo, dove i buontemponi s'ubriacavano sotto gli occhi del commissario di polizia.
La gran parte di questi bettolini campestri spariva prima di San Martino; c'erano però alcuni che cominciavano spillare il vino il giorno di Pasqua, altri per Pentecoste; a San Giovanni attaccavano il mercoledì delle Ceneri, per le grottesche esequie del Carnevale defunto ...
Ma qua e là il vino era autentico sangue di vite, rosso cupo o color ambra chiara, magari preparato troppo alla brava, con metodi primitivi e selvaggi, ma pretto, genuino, garantito a prova di bomba. E anche le balle erano sincere e senza trucchi!
Nelle gaie domeniche autunnali d'una volta nessuno esitava: un po' di pane e di pesce nel gran fazzoletto azzurro, la chitarra a tracolla, e su all'«osmizza» ottobrina! I cittadini si mescolavano ai popolani: tube e scialli cascemirre, rasche e fazzolettoni. Per amore del vino abboccato si rinunziava a ogni comodità. Si beveva all'aperto, ché l'angusta cantina non avrebbe ospitato neanche le dodici Muse; e mancavano le tovaglie e i tavoli e le seggiole.
I gitanti si sedevano intorno a una gran botte, su pietre, su travi, sull'erba. Spesso difettavano perfino i bicchieri. Beato chi aveva saputo pescare la bella boccaletta con la leggenda augurale: «Bevi Franzele!». Più volte una numerosa brigata doveva contentarsi d'un solo getto, che passava di mano in mano e di bocca in bocca. Altri bevevano da chicchere, da scodelle, da terrine, da bottiglie, senza smorfie e senza proteste: si badava al solo contenuto. Giorni patriarcali!
E le chitarre strimpellavano, e le rauche gole intonavano le canzonette in voga. Talvolta capitava uno storpio con la fisarmonica sfiatata o una banda di villaggio che straziava i timpani meno delicati. Ma le più diaboliche musiche non erano capaci di avvelenare le dionisiache bevute. Intorno era l'incanto autunnale e la graziosa agonia di porpora e d'oro.
Stendiamo un velo pietoso sui rumorosi ritorni nella buia campagna, sui canti a gola spiegata, a cui rispondevano dai casolari sparsi i cani di guardia, sulla rottura dei fanali a mano, sulle catastrofiche cadute nei fossati ...
E stendiamo un velo sulla famosa «lunedina» di Trieste, una replica dello spasso domenicale, che gli impenitenti crapuloni si regalavano per la propria beneficiata ...
Al chiaro delle stelle, per la bianca strada maestra, Bacco passava sul somarello, coronato di pampini, e ripeteva il ritornello del vate da strapazzo:
Evviva Trieste,
con tutti i triestini ...
(da "Il Piccolo", 22 0ttobre 1923)
[1] Riproposizione, con qualche variante e integrazione, dell'articolo apparso sulla rivista regionale «Tiere furlane / terra friulana», n. 32, settembre 2020, pp. 51-61.
[2] Cesare Fonda, Ocio a la jota. Storia de Trieste e de la sua cusina, 5 voll., Edizioni Alabarda Trieste, Trieste, 1992-1996; in volume unico, Edizioni Italo Svevo, Trieste, 2004.
[3] Cesare Fonda, Andar per frasche. Osmize e Aziende agrituristiche della Provincia di Trieste, Edizioni Italo Svevo, Trieste, 1997.
[4] Ivi, p. 9.
[5] Ivi, p. 11.
[6] Marino de Szombathely (a cura di), Libro delle Riformagioni o Libro dei Consigli (1411-1429), Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia, Trieste, 1970, p. 285; Fulvio Colombo, Storia della vite e del vino in provincia di Trieste, in Storia della vite e del vino in Friuli e a Trieste (a cura di Enos Costantini), Forum Editrice Universitaria Udinese, Udine, 2017, p. 591.
[7] Opera omnia Desiderii Erasmi Roterodami, ordinis secundi, tomus quartus, North-Holland, Amsterdam-New-York-Oxford-Tokyo, 1987, p. 32.
[8] Walter Friedrich Otto, Dioniso, Il melangolo, Genova, 1997, pp. 160-164.
[9] Alfredo Cattabiani, Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante, Mondadori, Milano, 1996, p. 110.
[10] Colombo, Storia della vite, pp. 552-553.
[11] Quaternus domorum et decimarum civitatis Tergesti. Quaderno delle case e delle decime della città di Trieste (a cura di Fulvio Colombo e Renzo Arcon), Deputazione di Storia patria per la Venezia Giulia, Trieste, 2009; reperibile su: www.scriniumadriae.it.
[12] Sistema Bibliotecario Urbano, Trieste. Archivio Diplomatico = ADTS, αDD1/I.
[13] Marino de Szombathely (a cura di), Statuti di Trieste del 1350, Casa editrice L. Cappelli, Trieste, 1930, pp. 118-123; Colombo, Storia della vite, pp. 583.
[14] Annamaria Conti, Le finanze del Comune di Trieste. 1295-1369, Deputazione di Storia patria per la Venezia Giulia, Trieste, 1999, pp. 67-68.
[15] ADTs, βEE3, c. 208r.
[16] Statuta inclitae civitatis Tergesti, Fongarini, Udine, 1727, p. 91.
[17] Colombo, Storia della vite, pp. 621.
[18] Archivio di Stato di Trieste, Cesareo regio governo in Trieste, b. 829, 1776-1809.
[19] Ivi.
[20] Handbuch aller unter der Regierung des Kaisers Joseph des II, vol. VI, Moesle, Wien, 1786, p. 11.
[21] Bartel F. Sinhuber, Das große Buch vom Wiener Heurigen, Orac Pietsch, Wien, 1980, pp. 23-24.
[22] Ignazio Kollmann, Trieste ed i suoi dintorni nel 1807 (trad. di Walter de Gavardo e Sergio degli Ivanissevich), Tip. Villaggio del Fanciullo, Trieste, 1978, pp. 96-97.
[23] Colombo, Storia della vite, pp. 654.
[24] Heinrich Hämmerle, Handbuch über die Polizei-Gesetze und Verordnungen, Selbstverlag des Verfassers, Wien, 1865, pp. 238-240.
[25] Bollettino delle leggi dell'Impero, Wien, 1859, p. 227 e 1907, p. 199.
[26] Bollettino delle leggi ed ordinanze per il Litorale austro-illirico, Tipografia del Lloyd austro-ungarico, Trieste, 1882, p. 8.
[27] Edinost, 30 aprile 1884.
[28] Edinost, 30 agosto 1884.
[29] Edinost, 26 novembre 1884.
[30] Edinost, 30 dicembre 1885.
[31] Edinost, 21 ottobre 1891.
[32] Il lavoratore, 3 giugno 1914.
[33] Il Piccolo, 22 ottobre 1923.